QALAMDAN
La croce e la mezzaluna alla corte degli acquaviva
Thriller storico oscillante tra presente e passato, il romanzo Qalamdan presenta nella sua trama complessa e articolata un interessante spaccato della Puglia della fine del XV, secolo visto con gli occhi di due impensabili "investigatori".
Entrato in possesso di un rullino fotografico vecchio di oltre trent’anni, l’artista Flavio Grisanti scopre che nei sotterranei dei locali affittati nel centro storico di Conversano è celato un antico segreto.
Insieme alla fidanzata Francesca Fantasia, ricercatrice della facoltà di Storia e letteratura dell’Università di Bari, comincerà a interessarsi scoprendosi catapultato in fatti accaduti alla fine del 1400, all’epoca di Giulio Antonio, primo Conte della Contea Acquaviva d'Aragona di Conversano, e alle vicende che lo videro comandare la coalizione cattolica all’indomani della presa di Otranto da parte dell’esercito turco del sultano Maometto II.
Tra scontri e agguati, cadaveri mummificati e confraternite di monaci guerrieri, i due giovani cercheranno di scoprire cosa collega il complesso monastico di Santa Maria dell’Isola alla città fortificata di Conversano, e le mirabili opere di Nuzzo Barba, artista salentino dell’epoca, alle vicende che seguirono la morte del Conte e la riconquista della cittadina salentina.
Mentre lentamente la verità comincerà a trasparire attraverso l’oscurità del tempo, Francesca e Flavio si accorgeranno che scoperchiare le tombe del passato portando alla luce storie vecchie di tanti secoli possono ancora interessare chi, in seno alla Chiesa di Roma, si adopera per svelare le prove di uno scomodo passato.
Oppure, di nasconderle per sempre.
Entrato in possesso di un rullino fotografico vecchio di oltre trent’anni, l’artista Flavio Grisanti scopre che nei sotterranei dei locali affittati nel centro storico di Conversano è celato un antico segreto.
Insieme alla fidanzata Francesca Fantasia, ricercatrice della facoltà di Storia e letteratura dell’Università di Bari, comincerà a interessarsi scoprendosi catapultato in fatti accaduti alla fine del 1400, all’epoca di Giulio Antonio, primo Conte della Contea Acquaviva d'Aragona di Conversano, e alle vicende che lo videro comandare la coalizione cattolica all’indomani della presa di Otranto da parte dell’esercito turco del sultano Maometto II.
Tra scontri e agguati, cadaveri mummificati e confraternite di monaci guerrieri, i due giovani cercheranno di scoprire cosa collega il complesso monastico di Santa Maria dell’Isola alla città fortificata di Conversano, e le mirabili opere di Nuzzo Barba, artista salentino dell’epoca, alle vicende che seguirono la morte del Conte e la riconquista della cittadina salentina.
Mentre lentamente la verità comincerà a trasparire attraverso l’oscurità del tempo, Francesca e Flavio si accorgeranno che scoperchiare le tombe del passato portando alla luce storie vecchie di tanti secoli possono ancora interessare chi, in seno alla Chiesa di Roma, si adopera per svelare le prove di uno scomodo passato.
Oppure, di nasconderle per sempre.
Prologo - Il rullino fotografico
Un rullino fotografico racchiuso nel suo cilindretto di plastica. Un oggetto anacronistico nell’era digitale, il segno di un passato difficile da ritrovare nella quotidianità attuale fatta di migliaia di scatti operati con qualsiasi apparecchio, inclusa anche la macchina fotografica che qualcuno si ostina a comprare. Di fotografi amanti del vintage, in realtà, ce ne sono ben pochi in giro, anche perché è difficile trovare ancora un negozio che possa permettersi il lusso di far stampare foto analogiche a un prezzo contenuto.
Ecco perché quando Flavio Grisanti affittò il locale in Vico IV Schiavelli, disabitato ormai da molti anni e palese- mente bisognoso di un buon restauro, l’apparizione di quel piccolo contenitore nascosto all’interno di un cassetto, miracolosamente intatto tra i resti di un antico tavolo da lavoro distrutto dall’inclemenza del tempo, gli sembrò quasi come la riesumazione di un oggetto appartenuto a un passato remoto di cui si era perso anche il ricordo.
E quando, incuriosito, mosse il cilindretto percependo un rumore sordo che testimoniava la presenza di qualcosa al suo interno, non poté resistere alla tentazione di aprirlo seduta stante, non foss’altro per verificare ciò che realmente esso conteneva.
Il contenitore giallo della Kodak non recava alcun segno di manomissione a riprova che, sicuramente, non era stato violato: l’ignoto proprietario, una volta scattate le fotografie, aveva riavvolto il nastro e l’aveva inserito nella sua custodia confidando di far stampare la pellicola in seguito. Cosa che, per chissà quale motivo, non aveva portato a termine.
Flavio soppesò sul palmo della mano l’oggetto misterioso, riflettendo su come un affarino così piccolo fosse in grado di gettare un ponte tra il presente e il passato, una vera e propria macchina del tempo che poteva far luce su quel che era accaduto molti decenni prima.
Ma perché solo su un soggetto o su un singolo evento? Quel tipo di rullini riportava il possibile numero di foto da scattare, anche se qualche bravo fotografo riusciva a inserire la pellicola in modo tale che, alla fine, si riusciva a scattarne qualcuna in più. E poiché sulla superficie esterna era ripor- tato il numero 36, c’erano un ugual numero di foto scattate e, potenzialmente, altrettante situazioni differenti immortalate sul sottile nastro di cellulosa.
“Ho altro a cui pensare al momento” rifletté l’uomo, riponendo il rullino nel cilindretto e chiudendolo col suo disco di plastica a pressione, ponendo il tutto nella tasca destra dei suoi pantaloni mentre, mestamente, guardava ancora quel che restava di quell’antico tavolo che recava i segni di un’irrecuperabile usura. “Mi pare che si salvi ben poco in questa stanza” pensò smuovendo con il piede un cumulo di assi venute giù da una nicchia che, sicuramente, fungeva da mensola nel muro, ora raggruppate insieme ai resti di alcune bottiglie servite per chissà quale scopo.
“La cosa buona e che non impiegherò molto tempo nel fare la ricognizione del mobilio che i vecchi proprietari mi hanno lasciato” constatò uscendo dalla stanza ed entrando nella successiva. “La cosa brutta è che mi toccherà comunque spendere tempo e sudore nel disfarmi di tutti i rottami che fungevano da arredamento. Senza contare che chiunque chiamerò non se li porterà via gratis…”.
Fuori, la luce del giorno che stava lentamente calando in quelle prime ore pomeridiane di metà gennaio filtrava a stento attraverso i vetri sporchi della piccola finestra che, con la sua inferriata arrugginita, dava l’idea di un’apertura in una vecchia cella all’interno di una prigione dimenticata dal tempo.
«Basta elucubrazioni: diamoci da fare!» esclamò scuotendosi dal tetro torpore che l’aveva invaso guardando quello che, nei suoi progetti, sarebbe dovuto diventare il suo personalissimo atelier; e che, al momento, gli instillava più dubbi che certezze.
Ripercorse al contrario quella decina di passi che lo divi- devano dall’uscita del locale e, chiuso il grande finestrone (il portone non valeva la pena di rinserrarlo), si diresse verso il furgoncino parcheggiato nei pressi del Monastero di San Cosma, confidando nel fatto che il cartello di avviso temporaneo di parcheggio esposto sul cruscotto avesse potuto evitare a qualche vigile solerte di rifilargli una multa per sosta vietata.
Nell’animazione sospesa in quell’ora pomeridiana, sotto l’occhio vigile di un bel gatto tigrato pigramente accoccolato alla sommità di una scalinata, solo il vento freddo che s’insinuava nei vicoli dell’antico centro storico di Conversano si degnò di accompagnare il suo rientro a casa.
Ecco perché quando Flavio Grisanti affittò il locale in Vico IV Schiavelli, disabitato ormai da molti anni e palese- mente bisognoso di un buon restauro, l’apparizione di quel piccolo contenitore nascosto all’interno di un cassetto, miracolosamente intatto tra i resti di un antico tavolo da lavoro distrutto dall’inclemenza del tempo, gli sembrò quasi come la riesumazione di un oggetto appartenuto a un passato remoto di cui si era perso anche il ricordo.
E quando, incuriosito, mosse il cilindretto percependo un rumore sordo che testimoniava la presenza di qualcosa al suo interno, non poté resistere alla tentazione di aprirlo seduta stante, non foss’altro per verificare ciò che realmente esso conteneva.
Il contenitore giallo della Kodak non recava alcun segno di manomissione a riprova che, sicuramente, non era stato violato: l’ignoto proprietario, una volta scattate le fotografie, aveva riavvolto il nastro e l’aveva inserito nella sua custodia confidando di far stampare la pellicola in seguito. Cosa che, per chissà quale motivo, non aveva portato a termine.
Flavio soppesò sul palmo della mano l’oggetto misterioso, riflettendo su come un affarino così piccolo fosse in grado di gettare un ponte tra il presente e il passato, una vera e propria macchina del tempo che poteva far luce su quel che era accaduto molti decenni prima.
Ma perché solo su un soggetto o su un singolo evento? Quel tipo di rullini riportava il possibile numero di foto da scattare, anche se qualche bravo fotografo riusciva a inserire la pellicola in modo tale che, alla fine, si riusciva a scattarne qualcuna in più. E poiché sulla superficie esterna era ripor- tato il numero 36, c’erano un ugual numero di foto scattate e, potenzialmente, altrettante situazioni differenti immortalate sul sottile nastro di cellulosa.
“Ho altro a cui pensare al momento” rifletté l’uomo, riponendo il rullino nel cilindretto e chiudendolo col suo disco di plastica a pressione, ponendo il tutto nella tasca destra dei suoi pantaloni mentre, mestamente, guardava ancora quel che restava di quell’antico tavolo che recava i segni di un’irrecuperabile usura. “Mi pare che si salvi ben poco in questa stanza” pensò smuovendo con il piede un cumulo di assi venute giù da una nicchia che, sicuramente, fungeva da mensola nel muro, ora raggruppate insieme ai resti di alcune bottiglie servite per chissà quale scopo.
“La cosa buona e che non impiegherò molto tempo nel fare la ricognizione del mobilio che i vecchi proprietari mi hanno lasciato” constatò uscendo dalla stanza ed entrando nella successiva. “La cosa brutta è che mi toccherà comunque spendere tempo e sudore nel disfarmi di tutti i rottami che fungevano da arredamento. Senza contare che chiunque chiamerò non se li porterà via gratis…”.
Fuori, la luce del giorno che stava lentamente calando in quelle prime ore pomeridiane di metà gennaio filtrava a stento attraverso i vetri sporchi della piccola finestra che, con la sua inferriata arrugginita, dava l’idea di un’apertura in una vecchia cella all’interno di una prigione dimenticata dal tempo.
«Basta elucubrazioni: diamoci da fare!» esclamò scuotendosi dal tetro torpore che l’aveva invaso guardando quello che, nei suoi progetti, sarebbe dovuto diventare il suo personalissimo atelier; e che, al momento, gli instillava più dubbi che certezze.
Ripercorse al contrario quella decina di passi che lo divi- devano dall’uscita del locale e, chiuso il grande finestrone (il portone non valeva la pena di rinserrarlo), si diresse verso il furgoncino parcheggiato nei pressi del Monastero di San Cosma, confidando nel fatto che il cartello di avviso temporaneo di parcheggio esposto sul cruscotto avesse potuto evitare a qualche vigile solerte di rifilargli una multa per sosta vietata.
Nell’animazione sospesa in quell’ora pomeridiana, sotto l’occhio vigile di un bel gatto tigrato pigramente accoccolato alla sommità di una scalinata, solo il vento freddo che s’insinuava nei vicoli dell’antico centro storico di Conversano si degnò di accompagnare il suo rientro a casa.