LE TRASPARENZE DELL'ACQUA
L'atteso ritorno alla narrativa neorealistica
Basato su una storia vera, il romanzo ha come sfondo l’esistenza reale della gente che popola i Pozziglioni, ideale palcoscenico che ha come sfondo lo storico e caratteristico quartiere ottocentesco di Polignano a Mare.
Il protagonista è Enzo Martini, un giornalista diventato famoso come scrittore, che vive il dramma della perdita della moglie Roberta e del figlio adottivo Renè. Questa disgrazia lo porterà lungo una deriva interiore che condizionerà pesantemente il suo lato professionale e umano, facendolo precipitare in un lento ma inesorabile vortice autodistruttivo.
Tra pescatori e contadini, bottegai e baristi, insegnanti e muratori, gente umile e professionisti, in un continuo salto tra il presente e il passato, il lettore sarà condotto alla scoperta delle gioie e dei dolori che contrassegnano la maturazione di Enzo e delle persone a lui vicine, fino a comprendere la pienezza della disgrazia e la conseguenza del gesto che porterà il protagonista a essere l’ombra di sé stesso, lacerato tra la gioia di un amore appassionante e il dolore per la sua improvvisa scomparsa.
Due fattori, però, giocheranno un ruolo fondamentale sul finale: l’apparizione di Renè nella mente annebbiata di Enzo e il rinvenimento casuale di un biglietto scritto da Roberta. Questo spingerà il protagonista a vedere sotto un’altra luce cosa sia veramente successo quel 15 ottobre di dieci anni prima.
Basato su una storia vera, il romanzo ha come sfondo l’esistenza reale della gente che popola i Pozziglioni, ideale palcoscenico che ha come sfondo lo storico e caratteristico quartiere ottocentesco di Polignano a Mare.
Il protagonista è Enzo Martini, un giornalista diventato famoso come scrittore, che vive il dramma della perdita della moglie Roberta e del figlio adottivo Renè. Questa disgrazia lo porterà lungo una deriva interiore che condizionerà pesantemente il suo lato professionale e umano, facendolo precipitare in un lento ma inesorabile vortice autodistruttivo.
Tra pescatori e contadini, bottegai e baristi, insegnanti e muratori, gente umile e professionisti, in un continuo salto tra il presente e il passato, il lettore sarà condotto alla scoperta delle gioie e dei dolori che contrassegnano la maturazione di Enzo e delle persone a lui vicine, fino a comprendere la pienezza della disgrazia e la conseguenza del gesto che porterà il protagonista a essere l’ombra di sé stesso, lacerato tra la gioia di un amore appassionante e il dolore per la sua improvvisa scomparsa.
Due fattori, però, giocheranno un ruolo fondamentale sul finale: l’apparizione di Renè nella mente annebbiata di Enzo e il rinvenimento casuale di un biglietto scritto da Roberta. Questo spingerà il protagonista a vedere sotto un’altra luce cosa sia veramente successo quel 15 ottobre di dieci anni prima.
PROLOGO
Non so bene perché mi fermo a fissare il mare dopo quello che mi ha fatto; e neanche me lo sono chiesto con la voglia di scoprirlo in tutti questi anni, durante i quali i miei passi lenti mi hanno portato qui, affacciato dalla penultima ringhiera che, librandosi all’estremità di Largo Ardito dà sugli scogli in basso, là dove le onde s’infrangono sollevando, al tempo stesso, spruzzi di acqua come lacrime salate portate dal vento.
Ho sempre avuto uno strano rapporto con l’immensità del mare che si frappone tra me e l’orizzonte, quasi fosse un parente abituale con cui fermarsi a parlare. Oppure, che saluti solo con un cenno del capo e prosegui dritto, tanto lo rivedrai sempre al solito posto come i vecchi seduti sulle panchine di pietra nella piazza grande, o i barbieri sfaccendati sull’uscio di bottega nell’attesa dei clienti.
La gente dice che sono strano, che non ci sto più con la testa da quando è successa la disgrazia che ha cambiato la mia vita, facendo deragliare il locomotore che la trascinava dritta sui binari di una felice quotidianità. Ma la gente dice tante cose: un po’ per amore di pettegolezzo, un po’ per noia, oppure per pura sete di novità.
La gente parla, parla… Ma non sa! È convinta di comprendere unendo i frammenti dei discorsi uditi dalle bocche degli altri, di quelli che sanno sempre tutto, che dicono di conoscere le storie, che ritengono di essere in grado di spiegarle quelle cose che, vere o false che siano, a furia di ripeterle assumono la consistenza delle verità nonostante siano nate come favole.
Il maestrale mi scompiglia i capelli, almeno quel che resta della folta chioma che avevo da giovane, tanti anni fa quando ancora il tempo lo si perdeva per un nonnulla, tanto ce n’era in abbondanza. E un giorno che passava era visto come ore e minuti intercorse tra ieri e domani, e non come istanti che scomparivano inesorabilmente in quel che restava del giorno.
Passo stancamente la mano sul mento ispido… Non so quand’è stata l’ultima volta che mi sono rasato, che ho cercato di dare un aspetto più civile e meno animalesco al mio volto. Ma, anche se l’avessi fatto di recente, i miei occhi arrossati, a volte stravolti, da soli sarebbero bastati a mostrarmi per quello che sono: un uomo alla deriva. Anzi, a dirla tutta, un uomo invecchiato anzitempo, una zattera in balia di una tempesta che perde i pezzi man mano che le creste spumeggianti dei marosi si accaniscono sui legni marciti, tenuti precariamente insieme dalla corda sfilacciata dei ricordi.
Un gabbiano passa ad ali spiegate poco sopra la mia testa, il volo reso possibile dalle correnti d’aria che s’innescano quando questa, incontrando la verticalità della falesia, s’impenna bruscamente per poi farsi onda invisibile sopra le strade e le case di questo paese, inerpicandosi fin sopra i comignoli e le antenne dei terrazzi lassù, a oltre 40 metri su un mare solitamente azzurro, anche se oggi è di un grigio metallico mentre riflette la cupezza del cielo: troppe nuvole scure, troppo grigiore nell’area foriera di pioggia in questo pomeriggio autunnale che, in un sol colpo, ha spazzato il caldo dell’ultima estate.
Avevo un amico, una volta, che dava da mangiare ai gabbiani sporgendosi col busto sopra le ringhiere delle balconate, con la mano piena di briciole di pane protesa verso il vuoto. E gli uccelli che arrivavano in volo senza fermarsi, pronti a beccarle in un attimo sospeso lungo le loro rotte alate difficili da prevedere per noi che, ai loro occhi, sembriamo strani animali ancorati al suolo, legati a una esistenza che difficilmente si allontana dalla bidimensionalità degli eventi.
Che fine ha fatto?
A volte, quando ho la forza di smuovere i pensieri dai soliti percorsi circolari che mi regalano, insieme a un malessere fisico, una disperata quiete che sa di arresa, penso a lui; e ad altri come lui incontrati agli incroci della mia vita, lungo i sentieri che ho percorso.
Eppure, spesso non riesco a ricordarmi i volti, il suono delle loro voci, gli argomenti che ci accomunavano, i discorsi che facevamo. Di loro ho solo la rimembranza di forme, ombre del passato che scivolano intorno a me bisbigliando, scomparendo appena volto il capo inseguendo i loro movimenti troppo veloci per essere afferrati dal mio sguardo.
In quegli istanti fisso il mare, come se da questo potesse venirmi un aiuto che il mio cervello affaticato si rifiuta di offrirmi; e faccio andare le memorie, come suoni metallici di un carillon caricato a fatica, del quale ancora non so per quale miracolo ho la chiave.
Mi abbandono così alle note che conosco tanto bene da poterle abbozzare accompagnandole dai movimenti del capo, dapprima lentamente e poi, via via, sempre più velocemente, mentre attorno a me cala la sera.
Tra qualche giorno sarà il 15 ottobre.
Non so bene perché mi fermo a fissare il mare dopo quello che mi ha fatto; e neanche me lo sono chiesto con la voglia di scoprirlo in tutti questi anni, durante i quali i miei passi lenti mi hanno portato qui, affacciato dalla penultima ringhiera che, librandosi all’estremità di Largo Ardito dà sugli scogli in basso, là dove le onde s’infrangono sollevando, al tempo stesso, spruzzi di acqua come lacrime salate portate dal vento.
Ho sempre avuto uno strano rapporto con l’immensità del mare che si frappone tra me e l’orizzonte, quasi fosse un parente abituale con cui fermarsi a parlare. Oppure, che saluti solo con un cenno del capo e prosegui dritto, tanto lo rivedrai sempre al solito posto come i vecchi seduti sulle panchine di pietra nella piazza grande, o i barbieri sfaccendati sull’uscio di bottega nell’attesa dei clienti.
La gente dice che sono strano, che non ci sto più con la testa da quando è successa la disgrazia che ha cambiato la mia vita, facendo deragliare il locomotore che la trascinava dritta sui binari di una felice quotidianità. Ma la gente dice tante cose: un po’ per amore di pettegolezzo, un po’ per noia, oppure per pura sete di novità.
La gente parla, parla… Ma non sa! È convinta di comprendere unendo i frammenti dei discorsi uditi dalle bocche degli altri, di quelli che sanno sempre tutto, che dicono di conoscere le storie, che ritengono di essere in grado di spiegarle quelle cose che, vere o false che siano, a furia di ripeterle assumono la consistenza delle verità nonostante siano nate come favole.
Il maestrale mi scompiglia i capelli, almeno quel che resta della folta chioma che avevo da giovane, tanti anni fa quando ancora il tempo lo si perdeva per un nonnulla, tanto ce n’era in abbondanza. E un giorno che passava era visto come ore e minuti intercorse tra ieri e domani, e non come istanti che scomparivano inesorabilmente in quel che restava del giorno.
Passo stancamente la mano sul mento ispido… Non so quand’è stata l’ultima volta che mi sono rasato, che ho cercato di dare un aspetto più civile e meno animalesco al mio volto. Ma, anche se l’avessi fatto di recente, i miei occhi arrossati, a volte stravolti, da soli sarebbero bastati a mostrarmi per quello che sono: un uomo alla deriva. Anzi, a dirla tutta, un uomo invecchiato anzitempo, una zattera in balia di una tempesta che perde i pezzi man mano che le creste spumeggianti dei marosi si accaniscono sui legni marciti, tenuti precariamente insieme dalla corda sfilacciata dei ricordi.
Un gabbiano passa ad ali spiegate poco sopra la mia testa, il volo reso possibile dalle correnti d’aria che s’innescano quando questa, incontrando la verticalità della falesia, s’impenna bruscamente per poi farsi onda invisibile sopra le strade e le case di questo paese, inerpicandosi fin sopra i comignoli e le antenne dei terrazzi lassù, a oltre 40 metri su un mare solitamente azzurro, anche se oggi è di un grigio metallico mentre riflette la cupezza del cielo: troppe nuvole scure, troppo grigiore nell’area foriera di pioggia in questo pomeriggio autunnale che, in un sol colpo, ha spazzato il caldo dell’ultima estate.
Avevo un amico, una volta, che dava da mangiare ai gabbiani sporgendosi col busto sopra le ringhiere delle balconate, con la mano piena di briciole di pane protesa verso il vuoto. E gli uccelli che arrivavano in volo senza fermarsi, pronti a beccarle in un attimo sospeso lungo le loro rotte alate difficili da prevedere per noi che, ai loro occhi, sembriamo strani animali ancorati al suolo, legati a una esistenza che difficilmente si allontana dalla bidimensionalità degli eventi.
Che fine ha fatto?
A volte, quando ho la forza di smuovere i pensieri dai soliti percorsi circolari che mi regalano, insieme a un malessere fisico, una disperata quiete che sa di arresa, penso a lui; e ad altri come lui incontrati agli incroci della mia vita, lungo i sentieri che ho percorso.
Eppure, spesso non riesco a ricordarmi i volti, il suono delle loro voci, gli argomenti che ci accomunavano, i discorsi che facevamo. Di loro ho solo la rimembranza di forme, ombre del passato che scivolano intorno a me bisbigliando, scomparendo appena volto il capo inseguendo i loro movimenti troppo veloci per essere afferrati dal mio sguardo.
In quegli istanti fisso il mare, come se da questo potesse venirmi un aiuto che il mio cervello affaticato si rifiuta di offrirmi; e faccio andare le memorie, come suoni metallici di un carillon caricato a fatica, del quale ancora non so per quale miracolo ho la chiave.
Mi abbandono così alle note che conosco tanto bene da poterle abbozzare accompagnandole dai movimenti del capo, dapprima lentamente e poi, via via, sempre più velocemente, mentre attorno a me cala la sera.
Tra qualche giorno sarà il 15 ottobre.