NATI SOTTO IL SEGNO DEL RICCIO
Il seguito di Largo Gelso n. 21
La vita negli anni '80 nel secondo millennio in Puglia raccontati attraverso gli errori, le ambizioni, i gsuti e le passioni degli adolescenti in un'epoca di grandi speranze e di rosse aspettative (non tutte infrante...)
PREMESSA
Mi ero ripromesso di non ricascarci m a... niente: non ho saputo resistere alla tentazione!
Dopo aver scritto Largo Gelso n. 21 mi è rimasta nella mente una sensazione di inappagamento, come se, durante un banchetto con portate particolarmente gustose, i commensali si fermassero in attesa di quegli altri piatti che, anche se non inseriti nel menù, t’aspetti che arrivino da un momento all’altro, perché solo così il pranzo o la cena si concluderebbe in maniera adeguata.
E alla sensazione di non pienezza si aggiunge anche la curiosità di sapere come potrebbe procedere la storia della nostra generazione, come possa evolversi e fin dove si spingerebbe nel ripercorrere i sentieri di un’esistenza scandita, come la definì un famoso poeta del rock, a “suon di musica forte, scritta dai suoni di chitarre elettriche e ritmata dal rimbombo delle percussioni”.
Una musica che, a seconda delle situazioni, prosegue lenta o veloce, rilassante o ipnotica, da camera o da strada, ma, sempre e comunque, come la musica dei nostri pensieri e dei nostri ricordi.
Nel mio precedente libro mi ero fermato agli anni della mia maturità, conquistata sui banchi di scuola e affinata dalle amicizie del tempo; una maturità conseguita all’ombra dei gelsi, degli olivi e delle querce piantate nelle piazze e per le strade del mio paese, percorsa seguendo i tempi scanditi dai cippi indicatori ai margini delle strade. La luce riflessa dai catarifrangenti fa da riverbero ai lampi che hanno marcato i momenti più significativi di un’esistenza che, arrivata alla mia età attuale, è artefice, complice e testimone di quel che sono adesso, di quel che avrei potuto essere o di quello che non sono stato mai. E che, nel bene o nel male, mi ha innegabilmente connotato.
Non ho altre pretese che svolgere il compito del novelliere, al pari di quei cantastorie erranti che, seduti intorno a un fuoco in un bivacco del deserto o davanti a una grotta di montagna, per secoli hanno raccontato vite vissute in altri lidi e in altri tempi. Oppure come un marinaio disceso dalla nave ancorata in un porto all’altro capo del mondo che, su un tavolaccio inciso di frammenti di pensieri e di vite altrui, racconta con la voce impastata dall’alcol storie senza trama, incurante se ci sia o meno un orecchio lì pronto ad ascoltarlo.
Eh sì: voglio essere un narratore, un bardo d’altri tempi, un araldo, un almanacco vivente che, con voce mai stanca, ripete gesta e imprese quotidiane di quelle genti che ha conosciuto nei posti che ha attraversato, delle realtà che ha condiviso e dei tempi che ha vissuto.
L’unica accortezza che raccomando è quella di seguirmi con pazienza perché, anche in una semplice storia, c’è qualcosa di noi che gli altri non conoscono e che, naturalmente, vorremmo che apprendessero: quello che abbiamo fatto oppure non abbiamo potuto o voluto fare; e quello che siamo stati o che avremmo potuto essere (e, forse, lo siamo diventati, ma a nostra insaputa).
Dei sogni infranti e di quelli realizzati, o anche di quelli solo vagheggiati; delle speranze e degli amori che abbiamo cullato, perseguito, disperato di raggiungere, conseguito o infranto; delle vicende di cui siamo stati attori o spettatori o, semplicemente, occasionali osservatori, passanti frettolosi che, di questi episodi, hanno colto soltanto un frammento impalpabile e nulla più.
E, in fondo, già ricordarli questi piccoli o grandi eventi implica averli vissuti e non, semplicemente, aver dato loro esistenza nei sogni.
Mi ero ripromesso di non ricascarci m a... niente: non ho saputo resistere alla tentazione!
Dopo aver scritto Largo Gelso n. 21 mi è rimasta nella mente una sensazione di inappagamento, come se, durante un banchetto con portate particolarmente gustose, i commensali si fermassero in attesa di quegli altri piatti che, anche se non inseriti nel menù, t’aspetti che arrivino da un momento all’altro, perché solo così il pranzo o la cena si concluderebbe in maniera adeguata.
E alla sensazione di non pienezza si aggiunge anche la curiosità di sapere come potrebbe procedere la storia della nostra generazione, come possa evolversi e fin dove si spingerebbe nel ripercorrere i sentieri di un’esistenza scandita, come la definì un famoso poeta del rock, a “suon di musica forte, scritta dai suoni di chitarre elettriche e ritmata dal rimbombo delle percussioni”.
Una musica che, a seconda delle situazioni, prosegue lenta o veloce, rilassante o ipnotica, da camera o da strada, ma, sempre e comunque, come la musica dei nostri pensieri e dei nostri ricordi.
Nel mio precedente libro mi ero fermato agli anni della mia maturità, conquistata sui banchi di scuola e affinata dalle amicizie del tempo; una maturità conseguita all’ombra dei gelsi, degli olivi e delle querce piantate nelle piazze e per le strade del mio paese, percorsa seguendo i tempi scanditi dai cippi indicatori ai margini delle strade. La luce riflessa dai catarifrangenti fa da riverbero ai lampi che hanno marcato i momenti più significativi di un’esistenza che, arrivata alla mia età attuale, è artefice, complice e testimone di quel che sono adesso, di quel che avrei potuto essere o di quello che non sono stato mai. E che, nel bene o nel male, mi ha innegabilmente connotato.
Non ho altre pretese che svolgere il compito del novelliere, al pari di quei cantastorie erranti che, seduti intorno a un fuoco in un bivacco del deserto o davanti a una grotta di montagna, per secoli hanno raccontato vite vissute in altri lidi e in altri tempi. Oppure come un marinaio disceso dalla nave ancorata in un porto all’altro capo del mondo che, su un tavolaccio inciso di frammenti di pensieri e di vite altrui, racconta con la voce impastata dall’alcol storie senza trama, incurante se ci sia o meno un orecchio lì pronto ad ascoltarlo.
Eh sì: voglio essere un narratore, un bardo d’altri tempi, un araldo, un almanacco vivente che, con voce mai stanca, ripete gesta e imprese quotidiane di quelle genti che ha conosciuto nei posti che ha attraversato, delle realtà che ha condiviso e dei tempi che ha vissuto.
L’unica accortezza che raccomando è quella di seguirmi con pazienza perché, anche in una semplice storia, c’è qualcosa di noi che gli altri non conoscono e che, naturalmente, vorremmo che apprendessero: quello che abbiamo fatto oppure non abbiamo potuto o voluto fare; e quello che siamo stati o che avremmo potuto essere (e, forse, lo siamo diventati, ma a nostra insaputa).
Dei sogni infranti e di quelli realizzati, o anche di quelli solo vagheggiati; delle speranze e degli amori che abbiamo cullato, perseguito, disperato di raggiungere, conseguito o infranto; delle vicende di cui siamo stati attori o spettatori o, semplicemente, occasionali osservatori, passanti frettolosi che, di questi episodi, hanno colto soltanto un frammento impalpabile e nulla più.
E, in fondo, già ricordarli questi piccoli o grandi eventi implica averli vissuti e non, semplicemente, aver dato loro esistenza nei sogni.
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