LARGO GELSO N.21
IL ROMANZO D'ESORDIO
Le vicende semi serie di Polignano a Mare, paese atipico nella Puglia soleggiata, e della sua variegata umanità negli anni d’oro della sua storia, narrate dalle parole del protagonista.
PROLOGO
Sono nato nei primi anni del 1960, in una piccola casa bianca di calce dalle finestre sempre socchiuse, con i panni stesi ad asciugare appesi a un filo di ferro teso tra lo spigolo e un paletto in legno che minacciava di spezzarsi al peso della biancheria. Una casa bassa a un solo piano che, insieme ad altre poche case bianche e basse, era la periferia settentrionale di Polignano
a Mare, un piccolo paese a sud di Bari. Una casa di tre stanze più bagno presa in fitto dai miei genitori al numero 21 in quel Largo Gelso che dava il nome all’intero, piccolo rione.
Sono nato in casa e non all’ospedale perché, in quegli anni, si poteva ancora nascere in casa e le levatrici erano, prima ancora che ostetriche, portatrici di un’aura di magia e di miracolo nel termine dialettale col quale erano chiamate: mammére. La loro importanza era dovuta esclusivamente allo svolgimento del compito di far nascere i bambini. E questa splendida capacità di aiutare i piccoli a vedere la luce, a provare il calore di una famiglia, a respirare
l’aria che li avrebbe accompagnati per gli anni a venire, le rendeva importanti nella nostra comunità che, purtroppo, non aveva un ospedale.
Sono nato al passaggio tra la notte e il giorno, in quelle ore che gli antichi chiamavano le “ore del lupo”, quelle tra l’oscurità e la luce, laddove è più facile che si intraprenda il grande passaggio alla vita e alla morte; ma anche quelle che ci regalano i sogni. Ed io ero il sogno di mio padre e mia madre, il figlio maschio che attendevano con ansia da ben cinque anni, dopo che era nata mia sorella.
Sono nato sano e forte, un piccolo torello di quasi quattro chili. E a giudicare dalle testimonianze dei presenti al parto, la mia vitalità fu confermata dai forti e ripetuti strilli che ho emesso appena ho percepito il passaggio dal buio e caldo ventre materno alla fredda luce artificiale delle lampade di casa. E come in ogni fiaba che imita, a seconda dei luoghi, la vita reale donandole un’aura di fantasia, sono nato con tre fortune cucite addosso: il posto, il tempo e il mare.
Il posto perché, innegabilmente non solo per me, il luogo in cui sono nato è il paese più bello del mondo.
Il tempo perché tutti gli anni vissuti dal momento della mia nascita in poi sono stati i più belli e irripetibili della mia vita.
Il mare perché sin dal primo istante che m’è apparso tra le case, tra me e lui è nato un sentimento profondo che ha tinto di colori, riempito di suoni e saturato di profumi il piccolo angolo di mondo entro il quale ho mosso i primi passi.
Prima di iniziare questo mio racconto, però, per onestà d’intenti, è bene che faccia una piccola quanto salutare precisazione. È risaputo che le prime venti pagine di un libro, sia esso romanzo, saggio o quant’altro, sono sempre le più importanti: sono quelle che, lette per prime, di solito decretano il suo successo tra i lettori se riescono a tenerli abbastanza incollati alle pagine.
Quindi anch’io dovrei provare a tenervi incatenati a questo mio flusso di ricordi messo su carta, dovrei stupirvi e appassionarvi e farvi fare le ore piccole estraniati dalla necessità fisiologica del sonno per sapere come termina un capitolo e come inizia il successivo.
Certo, potrei farlo. Ma per l’onestà accennata prima, mi è d’obbligo precisare che non è quello che realmente m’importa. Non voglio scrivere per chi vuole o deve o può leggermi: scrivo per me, per quello che sono stato, che voglio essere e che sarò ancora negli anni a venire, scrivo di chi o di cosa ha reso possibile questa mia forte consapevolezza e scrivo per coloro i quali, insieme a me, hanno avuto un ruolo importante nella mia vita. Per tale motivo non mi arrovellano i dubbi su come o cosa scrivere, non sono indeciso se scrivere in prima persona come se stessi discorrendo o ricoprire il
ruolo del narratore che racconta, quasi estraniandosi, una qualsiasi storia, reale o inventata, senza con questo coinvolgere il lettore più di tanto; o, ancora, scrivere mettendomi al di fuori dal contesto, intrecciando le parole, le descrizioni, i dialoghi, le enunciazioni come se fossero i personaggi stessi a raccontarsi nelle pagine.
Quindi, libero da ogni legaccio linguistico, pronto a saltare da una frase in italiano a una in dialetto, scrivo come se dovessi parlare a un pubblico vasto e, talvolta, anche disattento, come una volta si faceva nelle sere d’inverno intorno a un braciere (dico “una volta” non perché adesso non si può più fare, ma solo perché ritengo sia un po’ difficile trovare un braciere
nelle case di chiunque o cercare di riunirsi intorno a un termosifone), o nelle sere d’estate, seduti all’aperto su sedie, gradini e marciapiedi, per evitare il caldo umido e afoso dello scirocco che ristagnava nelle case appena il sole calava dietro l’orizzonte.
Bene, è proprio da questo ricordo che ho di me, bimbo dell’età apparente di quattro-cinque anni, sulle ginocchia di mio padre intento ad ascoltare i discorsi dei grandi seduti in circolo davanti al portone di una casa qualsiasi, con il termometro che sfiora i 30 gradi alle 8 di sera mentre il calore dell’aria s’insinua tra vestito e pelle e ti fa sudare o, al contrario, ti asciuga
all’istante..., sì, è proprio da qui che voglio partire a raccontarvi di me e del mio mondo. Perché, anche se di quei discorsi è rimasto solo l’eco e, ovviamente, il contesto delle vicende è sbiadito col tempo, quell’immagine comunque rimane ancora stampata, magari con colori un po’ stinti o seppiati, magari a brandelli come vecchie foto dagli orli sbrindellati, a testimoniare del luogo, del tempo e dell’amore di chi mi circondava e che, avvolgendomi come un bozzolo protettivo, mi ha sempre accompagnato nella mia strabiliante, commovente, meravigliosa e irripetibile trasformazione da bruco in farfalla.
Sono nato nei primi anni del 1960, in una piccola casa bianca di calce dalle finestre sempre socchiuse, con i panni stesi ad asciugare appesi a un filo di ferro teso tra lo spigolo e un paletto in legno che minacciava di spezzarsi al peso della biancheria. Una casa bassa a un solo piano che, insieme ad altre poche case bianche e basse, era la periferia settentrionale di Polignano
a Mare, un piccolo paese a sud di Bari. Una casa di tre stanze più bagno presa in fitto dai miei genitori al numero 21 in quel Largo Gelso che dava il nome all’intero, piccolo rione.
Sono nato in casa e non all’ospedale perché, in quegli anni, si poteva ancora nascere in casa e le levatrici erano, prima ancora che ostetriche, portatrici di un’aura di magia e di miracolo nel termine dialettale col quale erano chiamate: mammére. La loro importanza era dovuta esclusivamente allo svolgimento del compito di far nascere i bambini. E questa splendida capacità di aiutare i piccoli a vedere la luce, a provare il calore di una famiglia, a respirare
l’aria che li avrebbe accompagnati per gli anni a venire, le rendeva importanti nella nostra comunità che, purtroppo, non aveva un ospedale.
Sono nato al passaggio tra la notte e il giorno, in quelle ore che gli antichi chiamavano le “ore del lupo”, quelle tra l’oscurità e la luce, laddove è più facile che si intraprenda il grande passaggio alla vita e alla morte; ma anche quelle che ci regalano i sogni. Ed io ero il sogno di mio padre e mia madre, il figlio maschio che attendevano con ansia da ben cinque anni, dopo che era nata mia sorella.
Sono nato sano e forte, un piccolo torello di quasi quattro chili. E a giudicare dalle testimonianze dei presenti al parto, la mia vitalità fu confermata dai forti e ripetuti strilli che ho emesso appena ho percepito il passaggio dal buio e caldo ventre materno alla fredda luce artificiale delle lampade di casa. E come in ogni fiaba che imita, a seconda dei luoghi, la vita reale donandole un’aura di fantasia, sono nato con tre fortune cucite addosso: il posto, il tempo e il mare.
Il posto perché, innegabilmente non solo per me, il luogo in cui sono nato è il paese più bello del mondo.
Il tempo perché tutti gli anni vissuti dal momento della mia nascita in poi sono stati i più belli e irripetibili della mia vita.
Il mare perché sin dal primo istante che m’è apparso tra le case, tra me e lui è nato un sentimento profondo che ha tinto di colori, riempito di suoni e saturato di profumi il piccolo angolo di mondo entro il quale ho mosso i primi passi.
Prima di iniziare questo mio racconto, però, per onestà d’intenti, è bene che faccia una piccola quanto salutare precisazione. È risaputo che le prime venti pagine di un libro, sia esso romanzo, saggio o quant’altro, sono sempre le più importanti: sono quelle che, lette per prime, di solito decretano il suo successo tra i lettori se riescono a tenerli abbastanza incollati alle pagine.
Quindi anch’io dovrei provare a tenervi incatenati a questo mio flusso di ricordi messo su carta, dovrei stupirvi e appassionarvi e farvi fare le ore piccole estraniati dalla necessità fisiologica del sonno per sapere come termina un capitolo e come inizia il successivo.
Certo, potrei farlo. Ma per l’onestà accennata prima, mi è d’obbligo precisare che non è quello che realmente m’importa. Non voglio scrivere per chi vuole o deve o può leggermi: scrivo per me, per quello che sono stato, che voglio essere e che sarò ancora negli anni a venire, scrivo di chi o di cosa ha reso possibile questa mia forte consapevolezza e scrivo per coloro i quali, insieme a me, hanno avuto un ruolo importante nella mia vita. Per tale motivo non mi arrovellano i dubbi su come o cosa scrivere, non sono indeciso se scrivere in prima persona come se stessi discorrendo o ricoprire il
ruolo del narratore che racconta, quasi estraniandosi, una qualsiasi storia, reale o inventata, senza con questo coinvolgere il lettore più di tanto; o, ancora, scrivere mettendomi al di fuori dal contesto, intrecciando le parole, le descrizioni, i dialoghi, le enunciazioni come se fossero i personaggi stessi a raccontarsi nelle pagine.
Quindi, libero da ogni legaccio linguistico, pronto a saltare da una frase in italiano a una in dialetto, scrivo come se dovessi parlare a un pubblico vasto e, talvolta, anche disattento, come una volta si faceva nelle sere d’inverno intorno a un braciere (dico “una volta” non perché adesso non si può più fare, ma solo perché ritengo sia un po’ difficile trovare un braciere
nelle case di chiunque o cercare di riunirsi intorno a un termosifone), o nelle sere d’estate, seduti all’aperto su sedie, gradini e marciapiedi, per evitare il caldo umido e afoso dello scirocco che ristagnava nelle case appena il sole calava dietro l’orizzonte.
Bene, è proprio da questo ricordo che ho di me, bimbo dell’età apparente di quattro-cinque anni, sulle ginocchia di mio padre intento ad ascoltare i discorsi dei grandi seduti in circolo davanti al portone di una casa qualsiasi, con il termometro che sfiora i 30 gradi alle 8 di sera mentre il calore dell’aria s’insinua tra vestito e pelle e ti fa sudare o, al contrario, ti asciuga
all’istante..., sì, è proprio da qui che voglio partire a raccontarvi di me e del mio mondo. Perché, anche se di quei discorsi è rimasto solo l’eco e, ovviamente, il contesto delle vicende è sbiadito col tempo, quell’immagine comunque rimane ancora stampata, magari con colori un po’ stinti o seppiati, magari a brandelli come vecchie foto dagli orli sbrindellati, a testimoniare del luogo, del tempo e dell’amore di chi mi circondava e che, avvolgendomi come un bozzolo protettivo, mi ha sempre accompagnato nella mia strabiliante, commovente, meravigliosa e irripetibile trasformazione da bruco in farfalla.
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